Irma
Bandiera.
La nostra memoria.
Estratto dal libro Fangén. Epika edizioni, 2013.
“Quelli
che non sanno
ricordare
il passato
sono
condannati
a
ripeterlo”.
George
Santayana
La
vita della ragione
... Seguii
le indicazioni aprossimative della bibliotecaria, e così, senza
chiedere altre informazioni, mi ritrovai davanti alla targa: “via
Irma Bandiera”. Niente più. L’iscrizione non riportava la minima
informazione sulla vita di Irma Bandiera.
Rimasi
lì davanti, un po’ imbambolato, con gli occhi sul nome stampato,
senza sapere che fare, pensando che forse era il caso di lasciar
perdere quella ricerca.
-Ma
tu, ragazzino, lo sai chi era Irma Bandiera?- La voce rauca di una
anziano mi riportò alla realtà. Gli rivolsi lo sguardo sorpreso, e
lo salutai con un semplice sorriso.
-Ti
ho visto osservare l’iscrizione con tanto interesse che mi sono
sorpreso. E mi sono detto che deve esserci un motivo...
-Certo
che c’è un motivo –lo interruppi-. È il nome della mia scuola,
Irma Bandiera, e volevo sapere chi fosse.
-Davvero
non lo sai? Nessun professore ti ha mai detto perché la tua scuola
si chiama così?
-Mi
hanno spiegato solo che è stata una partigiana. Ma di partigiani ce
ne sono stati tanti; Irma Bandiera deve aver fatto qualcosa di
speciale, se le hanno intitolato una strada e una scuola.
-È
così, infatti. Irma è stata speciale, molto speciale.
L’anziano
parlava con voce dimessa, mi ispirava fiducia, e capii che dietro i
suoi occhi azzurri e malinconici c’erano tante risposte.
-Lei
l’ha conosciuta?
L’anziano
dapprima fece solo un gesto affermativo col capo, poi respirò
profondamente prima di rispondermi.
-Avevamo
la tua età; eravamo compagni di scuola, tutt’e due del ’15. Già
da bambina aveva quel carattere deciso, ma era dolcissima. Poi,
crescendo, è anche diventata una donna bellissima. Ma questo non
importa. Davvero vuoi sapere perché le hanno intitolato una via e
una scuola? Non è una storia per bambini...
-Non
sono un bambino, ho dodici anni. –fu la mia risposta. Il vecchio
abbozzò un sorriso mentre si passava il fazzoletto sul volto
-Sai
che hai ragione? Io, alla tua età ne avevo viste di tutti i colori.
E non me le raccontarono, le ho viste io, con i miei occhi. Ma non mi
dare del lei, per favore, che mi fai sentire più vecchio di quello
che sono. Puoi darmi del tu e chiamarmi Guerrino, che è il mio nome.
-Va
bene, come vuoi -gli risposi, con un sorriso-. Però me la racconti
la storia di Irma Bandiera?
-Sì,
stai tranquillo, adesso te la racconto.
Guerrino
mi invitò a sedermi su una panchina all’angolo con via de
Coubertin; eravamo a pochi passi dall’arco del Meloncello, la
strada era tranquilla e l’ombra degli alberi ci proteggeva dal sole
già forte di metà giugno. E proprio lì, sulla stessa via che porta
il suo nome, quell’anziano signore dagli occhi azzurri e tristi
cominciò a raccontarmi la storia di Irma Bandiera, anzi, la sua
storia di Irma Badiera. La storia di un amore frustrato.
-Io
e Irma Bandiera -mi disse- ci conoscevamo sin da quando eravamo
bambini, più giovani di te. Già allora si capiva che era una
persona speciale: aveva quegli occhioni grandi, brillanti, che
mettevano soggezione. Erano gli anni venti, noi bambini cantavamo
orgogliosi canzoni fasciste. In quegli anni una gran parte
dell’Italia ci credeva davvero nel fascismo; era una rivoluzione
italiana, diceva Mussolini, e noi bambini eravamo educati nel culto
alla nuova Italia fascista. Ma la Mimma, già allora, era diversa.
-La
Mimma?
-Sì,
Irma Bandiera: in famiglia la chiamavano affettuosamente così,
Mimma. Non so perché.
Lei
era diversa, ti dicevo, davvero. I suoi genitori, Angelo e
l’Argentina Manferrari, erano liberali, una famiglia benestante,
gente perbene e molto istruita. Siccome suo papà non aveva simpatia
per il fascio, e frequentava ambienti socialisti e liberali, a Irma
le avevano insegnato a stare attenta, a non dire mai una parola di
troppo.
Io,
invece, ero di una famiglia più modesta: mio padre era bottegaio,
poi, con la guerra, dovette chiudere il negozio, e ci rimase solo la
casa. Insomma, venivamo da due mondi diversi io e la Mimma, ma
eravamo vicini. E avevamo fatto la scuola assieme. Dalla mia casa
alla sua erano cinque minuti a piedi.
-E
tu, eri fascista? –interruppi l’anziano, con tutta la mancanza di
tatto di cui può essere capace un bambino.
Guerrino
mi fece segno con la mano di non interromperlo.
-Se
mai lo sono stato, mi è passata presto la voglia di essere fascista.
Ero appena più grande di te quando cominciai a vedere con i miei
occhi gli squadristi in azione. Qui, in via Saragozza, ho visto gente
pestata a sangue solo perché si era negata a cantare con loro o a
fare il saluto romano.
A
quindici anni le canzoni fasciste non le cantavo più. E quando
sentivo i loro slogan sbraitati a gran voce cambiavo strada senza
pensarci su nemmeno un secondo.
Irma
Bandiera la incontravo abbastanza spesso sulla strada di casa, e ogni
volta che la vedevo mi sembrava più bella. La salutavo, le
sorridevo; lei mi rispondeva appena, educatamente, e tirava diritto
per la sua strada. Non sono mai riuscito a riavvicinarmici, dopo la
scuola. Mi sarebbe piaciuto, ma ero timido e squattrinato, mentre lei
era una signorina educata ed elegante. Cosa avrei potuto offrirle,
io?
Qualche
anno più tardi fui chiamato per andare in guerra, come tanti. Mi
toccò l’Albania, il fronte greco. Ci rimasi un paio d’anni, poi
ho ricevuto una bella scheggia di mortaio nella gamba destra. Ogni
tanto mi fa ancora male, soprattutto quando piove; ma le voglio bene
a questa ferita, perché probabilmente mi ha salvato la vita.
Quando
tornai a casa, nel gennaio del ’43, la ferita alla gamba mi fece
anche un bel regalo: dopo due mesi fra casa e ospedale cominciai a
camminare con l’aiuto delle stampelle; passeggiavo qua attorno per
fare esercizio, e così, un bel giorno, me la ritrovai davanti: la
signorina Irma Bandiera, elegantissima come sempre e più bella che
mai. Mi guarda e mi dice: “Guerrino, che bella sorpresa, sei
tornato a casa. Mi fa piacere. Che contenti devono essere tua madre e
tuo padre.” Mi sorrideva, era davvero felice di vedermi. A me era
sempre piaciuta, e timido come ero, non sapevo cosa dirle. Le risposi
che speravo finisse presto la guerra, e che tutti i ragazzi del
quartiere tornassero a casa sani e salvi. Poi, non sapendo come
sostenere la conversazione, mi lamentai della mia ferita alla gamba.
“Non sembra grave” disse lei, “vedrai che fra qualche mese
salterai come uno stambecco.” Proprio così mi disse, mi ricordo
come se fosse stato ieri. Scoppiai a ridere: “Ma chi l’ha mai
visto uno stambecco a Bologna? Se ne vedi uno, poi mi spieghi come
salta”.
Si
mise a ridere anche lei, e ti giuro che vederla ridere in quel modo,
divertendosi con me, è stato il regalo più bello che m’abbia
fatto la vita. Mi diede una carezza: “Auguri per la gamba. Vedrai
che starai bene, stambecco.” Ridemmo di nuovo, poi se ne andò
verso casa. Prima di chiudersi il portone alle spalle si voltò e mi
regalò un ultimo sorriso. Mi fece tanto bene, quel sorriso. Tanto
bene che una settimana dopo comincia a dare i primi passi senza
stampelle. Nel giro di pochi mesi ricominciai a camminare; lento e
zoppo, ma camminavo. E nella primavera del ’44 i fascisti, per
compensarmi della ferita alla gamba, mi diedero un lavoro. Guadagnavo
una miseria ma, durante la guerra, anche quella miseria era un lusso.
E dovetti ringraziare, pensa te, dovetti ringraziare. Ero vivo per
fortuna, quasi ci rimetto una gamba per salvare la pelle, e appena
ricomincio a camminare, quelli mi mettono a lavorare con uno
stipendio da miseria. E dovevo ringraziare.
-Scusa,
ma questa storia cosa c’entra con Irma Bandiera?
Guerrino
sorrise. Aveva un sorriso triste, che spesso si perdeva in un
sospiro. Si passò la mano fra i capelli bianchi e tossì un paio di
volte.
-La
sto prendendo un po’ alla larga, ma sai, a volte non è facile
ricordare...
Si
bloccò su queste parole. Anch’io rimasi in silenzio, lo osservavo
e lo sentivo respirare forte, come se gli mancasse l’aria. Quando
riprese a parlare, lo fece quasi sottovoce.
-Quella
mattina mi alzai presto, molto presto, per andare a lavorare. Non
riuscivo a dormire per via del caldo, così alle sei ero già in
piedi, più mattiniero del sole. Salutai mia madre, che si era già
alzata, e uscii. Camminavo verso via Saragozza, e lì, proprio lì,
stesa sul selciato, me la trovai davanti. Era lei, Irma Bandiera. La
Mimma. La riconobbi subito. Più magra che mai, sfigurata; con il
volto, le mani e il petto pieni di lividi e bruciature, ma la
riconobbi subito. La Mimma. L’avevano tirata per terra come un
sacco di spazzatura. Portava un vestito scuro, elegante. Ma glielo
avevano strappato addosso; si vedeva. Anche i fori delle pallottole
si vedevano. E i rigagnoli di sangue. Gli occhi, poi, gli occhi...
E
qui si ferma. Vedo sulle sue labbra che vuole parlare ancora, ma non
ce la fa. Non piange, non ci sono più lacrime, chissà da quanto.
C’è solo il vuoto, un silenzio secco. Allora provo a dire qualcosa
sottovoce, una banalità penso.
-Erano
stati i tedeschi...
-No,
ragazzo -mi interrompe subito-, non erano stati i tedeschi. Quella è
la cosa peggiore: non erano stati i tedeschi. Le mani che l’avevano
torturata per una settimana, fino ad ucciderla, non erano state mani
tedesche. I tedeschi non erano così carogne. I soldati tedeschi ti
uccidevano guardandoti negli occhi. Erano soldati, nemici, invasori,
nazisti, tutto quello che vuoi, ma ti uccidevano guardandoti negli
occhi. Le più luride carogne erano quei fascisti italiani, bolognesi
come noi, come Irma. Loro la uccisero.
Evidentemente,
nessuno sapeva che Irma Bandiera fosse entrata nei partigiani, ma
quella mattina, appena la vidi sul selciato, capii tutto. Conoscevo i
fascisti e i loro metodi. Chi, come e dove, invece, sono particolari
che ho saputo molto più tardi, quando la guerra era già finita.
-E
non me li puoi raccontare?
-Quella
è un'altra storia, sai; un'altra brutta storia... Quello che io non
potevo sapere, allora, era che Irma era diventata staffetta della
settima brigata Garibaldi. Il giorno in cui la catturarono aveva
portato armi alla sua base, a Castelmaggiore. Da lì uscì poi con
dei documenti in codice, per consegnarli ai partigiani di Funo
d’Argelato. Arrivata in paese si incontrò con un altro partigiano,
ma improvvisamente si videro circondati da una pattuglia di S.S. e
una decina di camice nere.
Quelli,
le camice nere, erano i peggiori: erano tornati dal fronte dopo
l’armistizio pensando di essere degli eroi; si sentivano come
leoni. E invece erano solo dei burattini in mano a Hitler. Cretini,
oltre che carogne. Furono loro. Le mani che la torturarono furono
mani italiane. Le mani che l’accecarono furono mani italiane.
Perché anche quello le fecero. Le strapparono gli occhi. Davanti a
casa sua.
-Ma
perché?
-Per
farla parlare. Volevano sapere dove si nascondevano gli altri
partigiani.
-E
lei ha parlato?
-Chi,
la Mimma? Ma neanche per sogno. Zitta, lei. Muta.
Dopo
una settimana di torture la portarono davanti a casa sua, più morta
che viva. Da dietro le finestre i suoi vicini ascoltavano quelle
carogne dei fascisti che imprecavano: “Dio boia, dicci almeno
qualche nome e ti lasciamo entrare a casa; dietro a quella porta ci
sono i tuoi, ti cureranno, potrai vivere.” Ma lei, niente, muta
come un pesce. Volevano farla parlare con quel ricatto indegno. Ma
nemmeno in quel modo le tirarono fuori una parola. Nemmeno
accecandola. Alla fine la portarono al Meloncello, le scaricarono
addosso un mitra e la buttarono in mezzo alla strada.
Sembrerà
incredibile, ma quando la vidi aveva il sorriso sulle labbra. Morì
così, sorridendo ai suoi assassini. Chissà a cosa stesse pensando
per non sentire il dolore delle torture.
Dopo
aver parlato tanto, senza una pausa, Guerrino rimase improvvisamente
in silenzio. Vedevo il suo viso stanco, allora mi avvicinai a lui
sulla panchina e gli misi la mia mano di bambino sulla spalla.
Guerrino respirò profondamente un paio di volte, poi, senza alzare
lo sguardo, continuò.
-Quella
mattina, puoi immaginarti, non sapevo dove andare. Avrei voluto
raccogliere il suo corpo ancora tiepido e riportarla a casa sua, ma
sapevo che dietro a quelle finestre c’era almeno una spia dei
fascisti pronta a vendermi per due soldi o per un chilo di carne.
-Ma
tu non eri partigiano.
-Non
ancora. Ma dimostrare pietà per il cadavere di una partigiana era
una colpa sufficiente per fare la stessa fine. Cominciai a camminare.
Camminavo e camminavo senza sapere dove dirigermi. Non avevo più
dove andare. Non me la sentivo di tornare a casa, vedere i miei
genitori, raccontare quello che avevo visto. No, non potevo tornare a
casa e uscire il giorno dopo come se tutto continuasse uguale a
prima. Per momenti non ricordavo nemmeno il mio nome, pensavo di
essere impazzito. Non ero più io, non mi riconoscevo, non ritrovavo
dentro di me l’uomo che ero stato fino a quel giorno. Sapevo solo
che quella mattina era cambiato tutto. A forza di camminare arrivai
su a San Luca. Entrai in chiesa, e non so quante ore rimasi seduto lì
dentro, davanti all’altare.
Quando
uscii era già di pomeriggio; mi persi nei campi, poi nei boschi.
Camminai tutta la notte cercando istintivamente la montagna. Passai
Sasso Marconi e continuai a camminare, sino all’alba. Durante il
giorno mi nascondevo in fienili e cascine abbandonate, e la notte
camminavo fra gli alberi.
Tre
giorni più tardi avevo un paio di stivali ai piedi, un fazzoletto
rosso al collo e un mitra in mano. I primi mesi rimasi con la brigata
stella rossa, poi fummo annientati dai tedeschi sul monte Sole. Io
riuscii ad attraversare il fronte con quattro ragazzi di Modena.
Passai quell’inverno senza pensare al passato né al futuro, senza
nemmeno chiedermi se la guerra sarebbe mai terminata. Ma l’immagine
del cadavere di Irma sul selciato ritornava ogni notte. Ogni notte.
Mi ero rotto dentro; tutto mi si era rotto dentro, anche la paura.
Andavo in battaglia ridendo; la guerra, la vita e la morte avevano
perso ormai qualsiasi senso per me.
A
Bologna ci tornai il 21 aprile del ’45, partigiano della brigata
Maiella. Quel
giorno, mentre il resto della città festeggiava, sotto l'arco del
Meloncello io piansi in silenzio le ultime lacrime che riuscii a
trovare dentro di me.
Pianse
in silenzio le ultime lacrime che trovò dentro di sé. Ci sono frasi
che senti una volta nella vita, ma rimangono lì. Non sai perché ma
non se ne vanno più. Come certi visi. Come il viso del partigiano
Guerrino, quel giorno di giugno del 1980, mentre si alza dalla
panchina, mi saluta e si allontana in silenzio.